Entrai infuriato nella sede del giornale, non avevo avuto nemmeno il tempo di prendere il mio solito caffè quella mattina, o meglio ci avevo provato ma leggendo la mail del capo redattore, la miscela nera e amara che tanto mi piaceva sorseggiare, per poco non mi andò di traverso.
Ero seduto al solito bar, al solito posto, con la solita cameriera che mi sorrideva :<<Il solito caffè nero anche stamattina? >> <<Ormai dovresti saperlo, vengo qua tutte le mattina da quasi due anni>> le avevo risposto <<E tutte le mattina spero che i suoi gusti di merda cambino ma ancora non è successo>> mi aveva risposto con quell’aria pungente.
Non me la prendevo per i suoi commenti: andavo da tanto tempo e non mi davano fastidio, penso che fossi l’unico cliente a cui riserbava tutta quella sua personalità sprezzante.
In realtà non gliene facevo una colpa: Ginni aveva a che fare con quel tipo di clientela mattutina, maleducata e frettolosa che per qualche motivo non vedeva l’ora di rintanarsi nel solito ufficio grigio e con l’aria viziata, perciò non facevo storie per i suoi commenti un po’ troppo provocatori rispetto ad un normale rapporto cliente-cameriera.
Mi piaceva quel posto, seduto tutte le mattine davanti alla finestra che dava sulla via principale, mi piaceva prendere tempo a guardare la gente che si defilava per quella strada tanto affollata <<Caffè nero in arrivo>> voltai la testa <<Grazie Ginni>>.
Mentre me ne stavo lì tutto tranquillo senza un solo pensiero al mondo sentii il mio telefono vibrare, così lo tirai fuori dalla tasca del cappotto e lessi la mail “ARTICOLO RIFIUTATO”, aggrottai le sopracciglia e continuai a leggere “ci dispiace comunicarle sig. Zappacosta che il suo articolo è stato rifiutato in quanto non lo riteniamo adatto al nostro giornale, le auguriamo una buona giornata, cordiali saluti l’ufficio del capo redattore”.
<<Che baggianata è questa?>> guardai il capo redattore Merli, era un uomo di 54 anni un po’ in carne sempre stretto in giacche di qualche sartoria costosa anche se si ostinava a comprarle di una taglia in meno tanto che non riusciva mai a chiudere il bottone.
<<Cosa intendi Sergio?>>, mi guardò sorpreso con quella faccia costantemente arrossata e coperta da una patina di sudore <<Sai benissimo cosa voglio dire, in vent’anni che lavoro qui non mi è mai successo che rifiutaste un mio articolo, qual è il problema?>>, continuai con tono accusatorio.
Se ne stava sulla sua sedia con le rotelle che cigolava sotto il suo peso, cercando di evitare il mio sguardo: fingeva di guardare dalla finestra, dedicandomi ogni tanto delle occhiate nervose mentre cercava di capire se e quando avessi intenzione di andarmene.
Alla fine sospirò stanco della situazione <<Avanti lo sai come vanno queste cose, lavori qui da abbastanza tempo da sapere che le decisioni qui dentro non le prendo solo io>> <<Chi è stato stavolta?>> continuai cercando di strappargli qualche informazione <<Avanti, confessi, tanto ho già capito la situazione>> continuava imperterrito a crogiolarsi nel suo silenzio. <<Signore, per favore, se le è rimasto un briciolo di passione per questo lavoro almeno abbia la decenza di …>> <<Oh la prego la smetta, eh va bene va bene…>> confessò infilandosi in bocca una Camel Blue <<Le elezioni sono alle porte, lo sai anche tu, eh sì insomma un dipendente di Giovonocci è passato qui, non ha fatto minacce ma mi ha fatto intendere che quell’articolo non doveva essere pubblicato>> continuò mentre rovistava alla ricerca di un accendino << Giovonocci? Quel buono a nulla si è preso il disturbo di corromperla, ma poi come faceva a sapere dell’articolo?>> <<Beh non lo chieda a me, questo io non lo so>> continuò mentre aspirava un po’ di fumo.
<<Lei ovviamente non ha obiettato, immagino, si è lasciato manipolare senza fiatare>> <<Cosa dovevo fare, quell’uomo è l’unico motivo per cui questo giornale riesce a permettersi le spese di stampa senza i suoi finanziamenti loschi qua moriremo tutti di fame e di sicuro tu non potevi permetterti quella bella casa in centro>> lo guardai di sbieco.
Non sapevo cosa dire, scrivevo per quel giornale da quando ero uscito dall’università, da quando ancora ero un ragazzino pieno di speranze sempre pronto a battermi per qualsiasi causa.
Ero un bamboccio pieno di vita e di amore per il lavoro, avevo dei valori, delle ambizioni, volevo dar voce ai deboli smascherare i cattivi, ma capii ben presto che nel mondo reale i miei inutili tentativi di fare giustizia non mi avrebbero portato da nessuna parte, anzi mi avrebbero solo messo i bastoni fra le ruote. Perché alla fine così girava il mondo: la libertà di stampa, la libertà di espressione sono tutte belle frasi che a noi italiani tanto piace sbandierare nella nostra costituzione ma che alla fine rimangono lì e da nessun’altra parte: stampate su fogli, pagine e fascicoli.
Avevo visto i miei sogni andare in frantumi gettati contro ad un muro e poi calpestati, calpestati da quelli a cui della verità, della libertà non gliene importava, ma che anzi la sfruttavano, la violentavano ogni giorno manipolandola e modificandola a proprio piacimento per i loro giochi di potere.
Avevo capito che la verità la decideva chi poteva permettersela, la verità era del migliore offerente, e a nessuno importava se durante l’asta qualche voce veniva calpestata e qualche storia insabbiata.
Ho sempre sperato in un’Italia migliore, ho sperato per tanto tempo senza mai risolvere niente e forse è stato lì il mio errore, aspettare pazientemente che le cose cambiassero senza mai essere io stesso il primo a portare dei cambiamenti.
Francesca Sguazza
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